
"Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io". Tre figure in barca estratte dall’avorio navigano nel "mare amoroso" di garage BENTIVOGLIO. È sicuramente altra l’iconografia di riferimento di questo netsuke; ma come tutti gli oggetti e le forme che attraversano contesti, non è di certo sbagliato investirli di nuovi significati, che permettono loro di sopravvivere oltre la cultura che li ha generati. Questa barchetta è tra gli oggetti più piccoli che abitano gli spazi di Palazzo Bentivoglio, e fa parte di tutta quella miriade di cose che sta tra i capolavori, una pausa necessaria dello sguardo e del pensiero. Condizione necessaria dell’abitare in una collezione è infatti quella di non scimmiottare l’istituzione museale, che ab origine si è costruita attorno alla nozione dell’opera unica, del capolavoro in grado di condensare in sé tutti i significati, tralasciando le parti che sembrano meno riuscite nella storia dell’arte. Il netsuke, poi, più che essere guardato, chiede di essere toccato; la sua funzione originaria, quella di fermaglio per la cintura, è infatti più vicina al recettore del tatto, la mano, che a quello della vista, l’occhio. E così le sue forme devono essere conosciute mentre lo si nasconde all’interno del palmo, magari in tasca, e si seguono coi polpastrelli le linee, provando a immaginare poco per volta le forme, i volti, i corpi, che l’intagliatore è riuscito a creare in questo microcosmo della precisione. Nell’epoca della dittatura dell’immagine, un piccolo oggetto tattile può farci riflettere sulla saturazione dello sguardo, che sembra aver perso la forza immaginifica, chiedendoci di intuire o ricostruire ciò che l’opera non dice; bisogna così rimettersi per mare, come Hume, con il "battello sconquassato, con l'intatta ambizione di tentare il giro del mondo nonostante queste disastrose circostanze".


